Ritratto del Femminicida: Una Visione Psicopatologica
Prima di tutto, è importante chiarire che le generalizzazioni che seguono hanno il limite di non poter descrivere casi individuali, perché ogni caso fa storia a sé con le proprie peculiarità. Questo scritto vuole offrire un quadro generale della possibile struttura di personalità di un femminicida, per riflettere insieme su come un uomo possa arrivare a uccidere una donna con cui ha o ha avuto una relazione, o in alcuni casi persino senza alcun legame precedente.
In oltre 35 anni di attività come psichiatra, ho incontrato molte donne spaventate da uomini violenti, ma in pochissimi casi ho ricevuto richieste d’aiuto da parte di uomini potenzialmente femminicidi perché spesso queste persone hanno tratti o strutture di personalità che non gli consentono di chiedere aiuto prima di compiere gesti estremi. Questo lascia intendere che il problema principale di questi uomini è la scarsa capacità di sentire e la propria angoscia interiore e riconoscere le loro tendenze violente anche se poi appaiono contriti e pentiti davanti alle telecamere dei telegiornali durante gli arresti.
La paura che provano le donne vittime di questi uomini è un segnale molto precoce e importante, spesso l’unico allarme chiaro di un pericolo imminente. Esse percepiscono con chiarezza che la separazione può essere il momento in cui scatta una crisi profonda nel femminicida, legata a una perdita vissuta come morte di sé e compensata con l'eliminazione dell’altro provocando reazioni tragicontestuali. Questa paura non è mai infondata o irrazionale: rappresenta un indicatore cruciale di rischio che spesso viene invece sottovalutato o non ascoltato a sufficienza, anche dai sistemi di tutela, impedendo così interventi preventivi efficaci.
Spesso il femminicida mostra all’esterno un’immagine tranquilla, gentile e socialmente ben adattata, tanto che i vicini o conoscenti non sospettano nulla nelle interviste dei tg. In realtà, questa immagine è una costruzione accurata, la maschera di un falso sé che impermeabilizza la fragilità e l’instabilità interna. Quando la vittima cerca di sfuggire al controllo il femminicida vive una drammatica perdita di coesione interna, che può scatenare comportamenti violenti estremi.
La perdita di autostima e cioè la capacità di mantenere un’immagine integrata di sé nel tempo, conseguente a eventi vissuti come traumatici come la perdita e l’abbandono, genera un senso di angoscia e frammentazione psichica, che può portare alla necessità di “annientare” simbolicamente o fisicamente ciò che provoca tale sofferenza.
Un concetto chiave per comprendere queste dinamiche è il narcisismo, che ha un ruolo centrale nella formazione dell’identità e nelle relazioni con gli altri di questi uomini violenti. Normalmente, con il tempo, impariamo a separare noi stessi dall’altro, riconoscendo la sua autonomia. In alcuni casi però questo processo si blocca: l’altro è percepito solo come un’estensione di sé, senza vita propria. Se la partner si sottrae a questa proiezione, la coesione interna del femminicida si frantuma, scatenando quello stato di angoscia insopportabile, con il conseguente annientamento dell’altro con atti a volta anche di efferata ferocia.
Ribadiamo, a costo di sembrare ripetitivi ma il concetto è di fondamentale importanza, che le donne avvertono spesso questa minaccia in modo lucido e precoce, e la loro paura è un segnale oggettivo e fondamentale che, purtroppo, non costituendo una prova concreta o oggettivamente riconoscibile per il nostro sistema giudiziario, resta inascoltata, limitando l’efficacia degli interventi di prevenzione. La situazione si complica ulteriormente nei casi in cui siano coinvolti figli minori, in cui l’attenzione è ulteriormente spostata su segnali importanti ma che possono diventare fuorvianti.
Ci sono altri casi infine, in cui non c’è alcuna relazione tra femminicida e vittima, quindi la vittima è tale solo in quanto donna, in quanto rappresentante di genere. In questi casi quello che spesso caratterizza il potenziale femminicida dal punto di vista della struttura di personalità è una forma particolare di narcisismo che si associa a tratti sadici e condotte violente, che rende questi individui pericolosi in modo seriale e spietato: il cosiddetto narcisismo maligno descritto da Otto Kernberg fin dagli anni ‘70.
Questi quadri così diversificati danno un’idea della complessità di ciò che può accadere nella mente di un femminicida e ci fanno capire quanto sia essenziale ascoltare e dare attenzione alla paura della vittima come indicatore precoce di rischio che renda efficaci gli interventi di prevenzione e tutela.
Si potrebbe avere l’impressione che questi spunti di riflessione possano sembrare caratterizzati da un’apparente indulgenza nei confronti del femminicida nel tentativo di comprendere le logiche che ne determinano il comportamento. Per fugare ogni dubbio vogliamo qui ribadire la nostra posizione che è quella di “tolleranza zero” nei confronti della violenza di genere e di supportare le vittime in un percorso di denuncia e di affrancamento dalla persecuzione da parte di uomini prevaricatori e violenti. Per quei casi inoltre, in cui il femminicida è affetto da narcisismo maligno, la nostra idea è che la speranza di una cura ed una riabilitazione, per quello che la terapia psichiatrica oggi ci consente, e la psicopatologia ci suggerisce, sia da considerarsi scarsamente attendibile e l'unica possibile “soluzione” a disposizione, è quella di un isolamento di questi uomini dalle potenziali vittime a tempo indeterminato, un principio di “non ricuperabilità” che però il nostro sistema giuridico ad oggi non sembra contemplare.








